Incontriamo Maria Concetta Scaglione, per tutti, da sempre “Meri”.
Ci racconti chi sei, da dove arrivi, qual è il tuo percorso di formazione?
“Posso dire che sono alla Polisportiva Terraglio praticamente da sempre. Facevo nuoto sincronizzato quando era ancora uno sport poco conosciuto. Ho fatto da atleta la prima edizione del trofeo Terraglio… Poi quando si cresce e si deve “smettere” di nuotare, emerge il bisogno di rimanere nell’ambiente. Così anche per me è iniziata l’esperienza dell’insegnamento e sono andata ad affiancare, con le bambine più piccole, la mia allenatrice Luisa Chiavellin”.
“Era il 1987. Da allora di cose ne sono successe tantissime: il corso istruttori, quello di secondo livello e il tanto agognato corso allenatori a Roma: nell’occasione ero la più piccola di tutta l’Italia, avevo 19 ani, e la Federazione Nuoto mi mandò anche a casa una piccola borsa di studi. In quegli anni coltivavo il sogno di fare l’allenatore di Sincro, poi crescendo ho decisamente cambiato direzione e progetti. A seguire mi sono iscritta all’Isef di Padova che ho concluso con una tesi sull’acqua usata come strumento educativo, un tema che oggi sembra, ma all’epoca era abbastanza nuova e piacque tantissimo. Poi un sacco di altri corsi, convegni , studi vari… Fino alla decisione di intraprendere un percorso specifico triennale in Psicomotricità a Verona che ha dato fiato ed energia ad alcune mie intuizioni consolidando in me un certo approccio professionale che oggi ritengo irrinunciabile. Parallelamente allo studio a Verona ho frequentato per tre anni il percorso formativo estivo pressi l’Isrp di Parigi , la massima istituzione che si occupa di Psicomotricità in Europa, dove ho discusso la mia tesi in materia. Ancora una volta al centro della mia riflessione c’è stata l’acqua e la sua possibilità di divenire un contesto terapeutico speciale! E’ stata un’esperienza straordinaria”
Di cosa ti occupi in Polisportiva?
“Di tantissime cose! Soprattutto di accoglienza e di formulazione di progetti per persone con disabilità. Significa ascoltare i bisogni e le aspettative e cercare di dare delle risposte…”.
“Ovviamente tengo molto alla Psicomotricità in acqua in tutte le sue forme, sia individuale che di gruppo, mentre l’Attività Fisica Adattata in acqua che mi consente di valorizzare al massimo questa grande padronanza dell’ambiente acquatico che ho consolidato in molti anni. “Insegnare l’acqua” non è semplice, è un ambiente che ha le sue logiche, le sue regole, i suoi aspetti straordinari e le sue criticità. Accompagnare alla scoperta di questo straordinario strumento richiede pazienza, sensibilità, capacità di cogliere i dettagli e un amore viscerale per l’acqua, una conoscenza approfondita delle sensazioni, della percezione alterata che si scopre quando vi ci si immerge. Condurre un corso di Attività Fisica Adattata, non significa solo insegnare a fare movimenti corretti, ma accompagnare la persona all’ascolto del proprio corpo, ad un arricchimento percettivo e motorio senza pari, ad un movimento consapevole. Adoro lavorare con i bambini che sono per me una incredibile opportunità di crescita umana e professionale perché ti insegnano l’ascolto, la pazienza, la fiducia, la caparbietà, la resilienza, la forza”.
“È un lavoro faticoso, dove non c’è spazio per la distrazione, dove ogni dettaglio della relazione costituisce un mattoncino della fiducia in te che porta il bambino a crescere, ad esplorare, ad indagare l’ambiente fino a nuotarci dentro con la disinvoltura di un delfino. E poi ci sono i bambini con disabilità: ognuno meriterebbe un racconto tanto è pazzesco quello che sanno trasferirti in termini di forza emotivo. Ci sono piccoli che sono cresciuti alla Polisportiva Terraglio, talvolta bambini con disabilità gravi che hanno fatto il loro percorso, spesso hanno mosso qui i primi passi nell’acqua e poi a un certo punto hanno preso il volo alla conquista della propria vita. Ecco, lavorare in acqua è anche questo, crederci, provarci, avere fiducia, considerare sempre l’aspetto positivo dell’esperienza. Si fa fatica, fatica fisica, ma soprattutto emotiva: questo lavoro genera riflessioni che ti porti a casa e che diventano parte di quel bagaglio di emozioni e pensieri che è il nostro operare quotidiano e a cui mai potremmo rinunciare. Lavorare con la disabilità significa studio continuo, confronto con tanti professionisti che vedono il corpo con una connotazione diversa dalla tua. Nel confronto continuo, nella ricerca di soluzioni migliori si cresce e ci si migliora come professionisti. Ci sono mille professionisti che hanno contribuito alla mia crescita professionale ai quali sento di dovere davvero molto: penso a Betti che per prima ha creduto in me e nel mio modo di essere; penso al dottor Boscaini di Verona che mi ha fatta piangere tante volte, ma che mi ha insegnato il valore inestimabile dell’empatia nello spazio psicomotorio; penso al dottor Fuzzi, al dottor Perulli della Neuropsichiatria territoriale: tutte persone che hanno creduto nel mio amore per l’acqua e mi hanno lasciato sperimentare e fare quello che sentivo nel mio cuore. E poi devo dire grazie ai miei colleghi, alcuni insuperabili: mi va di ricordare Susy che mi manca molto e che ha lasciato un grande vuoto, e ricordare Mirco, capace di una forza sportiva ed espressiva davvero senza paragoni, per me è un maestro ! Alla fine il Terraglio è fatto di persone che hanno saputo crescere e credere ciascuno a suo modo, ciascuno con i suoi mezzi valorizzando un personale potenziale. Questo è il “nostro “ Terraglio”.
Su quali esigenze ritieni sia importante lavorare? Quali progetti per il futuro?
“Grazie di cuore per questa domanda! Io credo che chi si occupa di bambini deva sempre riflettere sui loro bisogni reali bisogni. Sappiamo quanto oggi si aspiri all’idea dell’eccellenza in ogni campo talvolta bruciando le tappe della crescita fisica ed emotiva dei bambini. Sempre più spesso ai nostri piccoli vengono chiesti sforzi immani, essere bravi a scuola, studiare l’inglese , fare due o tre esperienze sportive…”.
Giornate pienissime, organizzate nei minimi dettagli in una spasmodica ricerca di apprendimenti, di performances di tutti i tipi. Ebbene, io credo che ci sia bisogno di rallentare, di ascoltare i bisogni dei bambini che troppo spesso non sono quelli degli adulti. Rallentare e tornare al gioco che è espressione di sé, costruzione di relazioni reali con i pari, una chiave dia accesso al mondo a cui spesso si rinuncia per inseguire modelli standardizzati ed efficaci di “apprendimento rapido”. Serve una “nuova” cultura dell’infanzia dove al centro ci siano i bambini. C’è bisogno di promuovere un’altra idea di sport. Diciamo che una buona contaminazione potrebbe venire dalla psicomotricità, ma non solo. Credo ci sia molto da fare !
C’è un aneddoto, un episodio speciale da raccontare?
“Ne avrei miliardi! Prima o poi mi metterò a scrivere un libro. Di frasi dei miei piccolini ne conservo un quaderno pieno e ognuna mi regala una riflessione. Così non passa un giorno che non impari qualcosa …… Voglio ricordare quella che mi disse Francesco, 4 anni: “Maestra, ce la faccio solo se tu mi guardi….”.
“La situazione era questa: si gioca a fare i tuffi e Francesco ha paura. Lo aiuto un po’. Lo incoraggio e dopo un bel po’ di tentativi si accorge che ce la fa. Inizialmente gli do la mano. Poi solo un dito. Poi gli basta che io gli tocchi la spalla con la punta del dito e gli dia il via. Poi, alla fine, non lo tocco più… Gli do solo il via e lui magicamente si accorge che ce la fa, ce la fa da solo! Ha solo bisogno ancora del mio ultimo supporto: il mio sguardo che lo sostiene e lo incoraggia. Francesco si sente capace perché io lo guardo con la fiducia di chi è certo che ce la farà… Io a quelle parole mi sono letteralmente commossa. La sera ho scritto a tutti i colleghi più cari ribadendo le parole del piccolo Francesco: “Maestra, ce la faccio se tu mi guardi…”. Ecco di cosa ha bisogno una persona che deve imparare: di sentire la fiducia nelle sue risorse, nelle sue capacità, nel provare e riprovare. Se serve fare anche qualche passetto indietro, per aiutarlo, per semplificare, sapendo che questo serve ad andare avanti. Alla fine il tuffo del piccolo Francesco è la metafora di un volo: un volo verso la propria autonomia e verso la vita. Ecco perché amo il mio lavoro: quando un bambino lo guardi con fiducia, lui la percepisce, crede in te e prova a fare delle cose perché crede nella forza che tu vedi in lui. Questa sinergia rende tutto possibile, anche quello che facevi fatica a credere… Negli anni ho assistito a tantissimi “voli”, l’emozione per i quali mi fa venire i brividi ogni volta che ci ripenso. E, in tutto questo, l’acqua diviene l’ambiente dove le paure si sciolgono rivelando la vera forza della persona, anche se vive una condizione deficitaria. Una meraviglia!
Botta e Risposta
Il valore per te più importante?
L’amore, in tutte le sue forme. È veramente riduttivo dover spiegare con una parola!
Il tuo hobby?
Il mio lavoro occupa tutta me stessa…nel poco tempo che mi rimane mi piace leggere e fare ginnastica
Il tuo colore preferito?
Il rosso
Il libro da consigliare?
Ce ne sono davvero tanti…
Il film da vedere?
L’attimo fuggente.
L’animale preferito?
La tartaruga d’acqua, così goffa fuori dall’acqua, così elegante e a suo agio in acqua.
Mare o montagna?
Mare!
Un viaggio da fare?
A Lampedusa!
La tua dote migliore?
Dovrei pensarci un po’…
Il tuo limite più grande?
Ho una gravissima forma di incompetenza tecnologica. Nulla mi mette in difficoltà quanto il computer.
La data più significativa per te?
Anche qui dovrei pensarci…
La soddisfazione più importante?
Il mio lavoro di ogni giorno.
Una delusione che ti è rimasta dentro?
Purtroppo sono tante, ma mi concentro sulle soddisfazioni…
L’esperienza che più ti ha segnato?
Sono tantissime! Sia in ambito familiare che professionale.
Un sogno nel cassetto per il futuro?
Scrivere un libro per raccontare l’acqua come la viviamo noi!
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